Il termine folklore è un vocabolo che racchiude il complesso di nozioni	che formano il sapere del popolo. 
         Il termine coniato dall’inglese W.J Thoms verso la fine del 19° secolo deriva dai termini Folk e Lore, 
         il primo riferito a dottrina, il secondo a popolo,quindi “dottrina di popolo”, presto si diffuse in tutto 
         il mondo modificandosi via via nel corso dei secoli. 
         Il campo folclorico è vastissimo, esso comprende fiabe, favole, racconti, leggende proverbi, feste, riti, 
         cerimonie, credenze, superstizioni, vale a dire tutto il mondo palese ed occulto di realtà e immaginazione. 
         Il folclore ha però subito delle modificazioni molto lente, in esso abbondano elementi primitivi assimilati 
         a quelli attuali, basti pensare che accanto alle nuove creazioni vivono quelle arcaiche tradizionali. Le 
         realizzazioni più belle sono state frutto non solo della perfezione e del genio collettivo, ma soprattutto 
         del talento originale e dell’individualità dei loro creatori. 
Non si può ignorare che le poesie tramandatesi oralmente e per molte generazioni, e solo in seguito 
         trascritte, hanno costituito veri e propri capolavori. Il folclore è cambiato e continua a cambiare rapidamente, 
         non a caso tra i generi letterari il patrimonio folclorico è quello più attivo.
         La nostalgia della patria perduta, il ricordo delle gesta leggendarie di Skanderbeg sono motivi ricorrenti 
         nel patrimonio culturale degli italo-albanesi, trasmessi in canti rapsodie, leggende, credenze popolari, 
         che nel passato si legavano a rituali magici, che oggi continuano ad essere cantate e danzate dalla 
         popolazione nonostante abbiano perso le loro antiche funzioni, ma preferite ed apprezzate solo per il 
         loro valore artistico. 
Oltre alla rievocazione di episodi storici e leggendari della terra di origine,la letteratura popolare si 
         riferisce anche alle attività lavorative, alle festività dell’anno e della vita. 
         Il panorama delle tradizioni arbëreshe che si tramanda ancora oggi dopo più di 5 secoli è molto vasto, 
         se consideriamo come tutte le comunità dall’Abruzzo alla Sicilia abbiano gelosamente conservato canti, 
         fogge particolari del vestire lingua, rito, i costumi indossati in occasione delle vallje che da secoli 
         si tramandano identici nelle fogge, nei variopinti colori e nei ricami in oro, la ritualità suntuosa  
         della spiritualità greco-bizantina che con i suoi gesti, le sue forme e le sue cerimonie accompagna 
         l’intero anno liturgico, scandito da una serie di festività di grande suggestione, la lingua, parlata e 
         tramandata orgogliosamente di generazione in generazione, rispecchiano sicuramente aspetti di una specificità 
         etnica ormai unita a quella italica in cui avevano chiesto ed ottenuto ospitalità e precisamente nella 
         Calabria Citra, dove più che in ogni altra parte si conservano, quasi intatte le antiche costumanze degli 
         albanesi e dove è ancora vivo l’orgoglio di voler mostrare le proprie tradizioni, fanno di Civita,
         una delle rare isole albanofone in cui sembra di trovarsi in un altro tempo,in un altro luogo, in cui lo 
         scorrere del tempo porta altri suoni, colori, odori e sapori.
Nel viaggio tra passato e presente, sulle tracce dei grandi scrittori, Civita è il punto focale 
         dell’itinerario del Parco Letterario ”Old Calabria e i Viaggiatori del Gran Tour” per le sue bellezze naturali 
         e per l’identità rimasta inalterata nel corso dei secoli. Tracce dell’antica cultura d’origine sono evidenti 
         nei numerosi e suggestivi momenti che scandiscono la vita del paese. 
         Una delle ricorrenze più sentite e ricordate presso gli arbëreshë è la Commemorazione dei defunti 
         “Java e Prigatorëvet”. 
Festività a data mobile legata alla Pasqua, la settimana dei defunti ricade tra la fine di gennaio e 
         febbraio, periodo in cui anche la civiltà greca e la romana davano vita a rituali, rispettivamente nelle feste 
         Anesterie e Febbruali per ricordare e propiziarsi gli abitanti del Regno senza luce.
         Gli arbëreshë di rito bizantino-greco ieri come oggi innalzano coralmente la preghiera in ricordo dei cari 
         estinti “Shërbesa e Varrimit” e segnalano l’importanza del periodo in questione con particolari propiziazioni 
         alimentari (collivi e pani devozionali dati per lo più ai sostituti dei morti: poveri e mendicanti, e anticamente 
         a quelli che nel giorno dei morti “vëjinë për limozën e të vdekurvet” cioè ai poveri. 
         In ogni casa si accendono lumini ad olio e basta solo la presenza di queste piccole fiammelle e il loro 
         strepitio per dare l’impressione che la casa sia  visitata dai morti. I fedeli partono dalla chiesa e 
         raggiungono in processione il cimitero, intonando canti, qui il sacerdote celebra la messa di suffragio, 
         benedice con incenso ed acqua santa, le tombe. 
Il Carnevale si identifica con un periodo festivo tra Natale e la Quaresima. i paesi arbëreshë davano 
         molta importanza a questa festa profana,infatti durante il Carnevale, di sera le vie di questi piccoli 
         paesini risuonavano di allegri e festosi canti i famosi vjershë, che giovani animati da gioia di vivere 
         solevano cantare davanti alle porte di parenti e amici. 
         Al Carnevale in tutte le comunità albanesi era riservata una triste fine,la sera del martedì si bruciava 
         nella piazza del paese quale capo espiatorio dei peccati commessi con desiderio di ritrovare poi il mondo 
         di tutti i giorni. Il martedì su un tavolo veniva messo il Carnevale un uomo fatto di paglia e cenci con
         una cotica in bocca ed era portato in giro per le vie del paese, era seguito dalla moglie la Kreshmeza la  
         Quaresima, vestita a lutto che  piangeva e si strappava i capelli per la morte del marito dopo aver mangiato a 
         crepapelle.
 
         A proposito di questo vi era un vjershë: 
         Oj ma sonde çë ki Karnivall (Oh madre stasera è Carnevale)
         zgjomi ndrikull e kumbar. (svegliamo compari e comare).
         Ngreu e çel atë hilnar (alzatevi e accendete la luce)
         S’erdha se dua të ha (non sono venuto perchè voglio mangiare)
         s’erdha se dua t’pi (non sono venuto perché voglio bere)
         erdha se jemi gjiri (sono venuto perché siamo parenti).
Organizzare gare sportive che cominciavano alla fine di gennaio per terminare a Carnevale, era uno dei passatempi preferiti, tra questi il lancio del formaggio Ka Kongit zona all’entrata del paese e consisteva nel far rotolare il più lontano possibile il formaggio, facevano da raccattatori i ragazzini che spesso quando dovevano recuperare il formaggio e risalire lungo i sentieri ne approfittavano per mangiarne un po'.
Successivo ai festeggiamenti del Carnevale un primo e misterioso appuntamento è rappresentato dalle Ceneri, in occasione delle quali persone vestite di bianche lenzuola, al calar della notte si aggirano tra le viuzze del paese e, precedute dal suono di campanelli, entrano nelle case per lasciare cenere sul palmo della mano dei presenti, a voler ricordare il destino mortale dell’umanità.
La Quaresima appena iniziata conosce anche un’altra interruzione, la domenica successiva con il 
         Karnivallun  giorno in cui çahen poçet. La rottura delle pignatte è 
         una festa che viene organizzata non in spazi collettivi, 
         ma presso le famiglie, e coinvolge oltre ai familiari amici e vicini. In pratica un certo numero di pignatte 
         viene riempito con dolciumi e oggetti di vario genere molti dei quali scelti per suscitare ilarità nei 
         presenti. Una delle pignatte è d’obbligo che contenga un animaletto vivo di solito un topolino. 
         Le pignatte vengono appese ad un filo teso o sparse sul pavimento e a turno una persona bendata ed armata 
         di bastone cerca di romperle. Se riesce a romperne una il contenuto è suo a meno che non scappi via. 
         Il significato simbolico della “rottura della pignatta” secondo la tradizione popolare vuole indicare, 
         l’eliminazione degli strumenti usati per la preparazione delle ricche pietanze consumate durante il carnevale 
         e l’inizio della quaresima periodo di astinenza. 
La Kreshmeza è il simbolo della quaresima. Anticamente era consuetudine appendere alla finestra un pupazzo 
         di cenci neri che rappresentava la donna albanese vestita a lutto (per la morte di suo marito il Carnevale) 
         ai piedi veniva messa una patata, in cui venivano conficcate sette penne una per ogni settimana ed ogni 
         domenica ne veniva strappata una, aveva tra le mani il fuso e la conocchia testimonianza del duro lavoro a 
         cui era sottoposta e appesi come collana l’aringa, l’aglio, code di peperoni, scorze di arancia e qualche 
         fico secco, elementi predominanti nel misero cibo della povera gente. 
         Dopo averla privata dell’ultima penna si appendeva alla finestra e si bruciava. La  Quaresima comincia il 
         mercoledì delle ceneri e finisce al tramonto del venerdì Santo. Il pupazzo di cenci appeso alla finestra è 
         ormai una reliquia del passato. Rito suggestivo e di un profondo significato, quello che si svolge all’alba 
         della domenica di Pasqua, ”Fjalza e mirë” quando i fedeli si riuniscono 
         all’esterno della chiesa con le porte chiuse. 
         Dietro la porta principale rimane una persona che rappresenta le forze del male. Il sacerdote legge 
         il Vangelo di Marco e Matteo relativi all’Annuncio della Resurrezione, poi si avvicina alla porta e comincia 
         a bussare cantando i versetti del salmo, dietro la porta principale si odono fragorosi rumori e si intravedono 
         anche delle fiamme, sono i diavoli che impediscono a Gesù e quindi al sacerdote, di entrare, dopo tre tentativi 
         del sacerdote che bussa con la croce sulla porta, finalmente questa si spalanca ed i fedeli entrano in chiesa. 
         Mentre si svolge la Fjalza Mirë, seguita da Kristos Anesti Cristo Risorto, 
         dal canto del mattutino e dalla liturgia di San Giovanni Crisostomo. Anticamente nello stesso tempo alcune pie 
         comitive intonavano sotto le finestre dei dormienti il medesimo canto sacro del 
         “Krishti u Ngjall” mentre gioviali cantori invitavano il villaggio alla 
         festa con un canto popolare. 
         Nella messa solenne le campane suonano a festa si leggono i Vangeli e si distribuiscono le uova 
         colorate di rosso.
L’origine dei falò si perde nella notte dei tempi quando i falò, bruciano dalle prime ore della sera fino a notte inoltrata per onorare la primavera, un Santo, comunque ispirati alla gioia di vivere e a momenti di allegria. Quella dei fuochi è una tradizione fortemente radicata nelle comunità arbëreshe ed è sempre accompagnata da canti. Nelle strade e nelle piazze si accendono i falò che uniscono tutti gli abitanti del paese. I primi tre giorni del mese di maggio da 500 anni perdura la tradizione di accendere i falò “Kaminezit”.
Ogni vicinato ne prepara uno o anche due o tre vicinati si riuniscono e allestiscono il proprio falò. 
         Il giorno prima ragazze, ragazzi si recano nelle campagne a tagliare il lentisco, solo con questo si fanno i falò, 
         le foglie e i rami anche freschi bruciano perché il lentisco ha un liquido che si accende con più facilità e 
         bruciando si alza alto insieme al fumo e alle scintille. 
         Perché si fanno i falò? C’è chi dice per onorare la Primavera che arriva, chi dice che si ricorda che 
         Skanderbeg faceva segnali di fumo quando combatteva contro i Turchi, altri dicono che gli albanesi quando 
         giunsero nel nostro paese per poter coltivare i campi dovettero bruciare il lentisco. A Civita dopo che 
         si è acceso il falò nel vicinato si forma la vallja a cui partecipano tutti, donne, uomini ragazzi, bambini, 
         alle due estremità sono posti i kapurall che tengono in mano un ramo di lentisco, essa intona il verso per 
         onorare il vicinato o e per la salute di chi ha allestito il falò e di coloro che stanno intorno. 
La vallja si divide in due parti la prima studia volta per volta 
         le parole che devono cantare con un ritmo che non cambia da secoli, l’altra metà risponde cantando ciò 
         che sente mentre l’altra parte va avanti con la strofa e così via ogni volta. Le parole e le strofe 
         che si cantano si compongono al momento. 
         Quando il verso è pronto, la vallja si avvia cantando e visita tutti i falò, facendo cerchio intorno a 
         questo e gruppi di giovani scherzano e intonano canti di augurio oppure di satira sui vari falò. 
         Nel paese si incontrano le vallje e ovunque si odono canti. Ogni vallja quando torna nel suo falò festeggia 
         mangiando, bevendo e ballando. 
         É proprio in questa occasione che cominciano ad apparire poeti estemporanei che sono riusciti nel corso 
         degli anni a creare dei versi che nella loro semplicità hanno saputo esprimere i momenti più importanti 
         della storia paesana e del periodo storico in cui vissero. I canti dei falò hanno un’impostazione diversa 
         rispetto a quelli di Pasqua essendo quest’ultimi tristi. 
Ne ricordiamo alcuni:
         “Ki Kamin ka  shum hjè se e bëri nusja rè”
         “Ki kamin me kamnua vafshit gjithë mbë jatrua”
         “Ki kamin plot shkëndila mirrnie vesh trima e kopile”
         “Vemi shok ka kjò nxillikatë ktu rrin çotra dhe nxanxat”
         “Ki kamin ë plot me gjind jan dhjet e duken një qind”.
         Quando la legna è terminata, ognuno torna a casa e porta per augurio un po’ di cenere.
Liturgia al mattino seguita nel pomeriggio dalla processione della statua del Santo, accompagnata dai fedeli per le vie del paese.
Liturgia al mattino seguita nel pomeriggio dalla processione della statua della Santa, accompagnata dai fedeli per le vie del paese.
In questa occasione si svolgono i giochi popolari in onore della Madonna Assunta. Si tratta di una piccola olimpiade per cui,un tempo,veniva consegnato in palio un panno rosso preparato dagli anziani al vincitore di almeno tre gare. Si davano come premio anche Kuleçet,torte tipiche che i fedeli portavano in chiesa.
Questa festa apriva il periodo della semina, i massari, infatti, il giorno dopo la festa andavano nei campi. Alla Madonna del Rosario è dedicata la seconda domenica di ottobre, con liturgia alle ore 8.00 e alle ore 10.00 seguita poi dalla processione della statua per le vie del paese. La sera del sabato Grande Vespro, esibizioni canore e fuochi d’artificio.
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